“Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae”

Cicerone, De oratore II, 9

  1. Un monito fondamentale in un sistema in crisi.
    Quella che ha coinvolto Enzo Tortora è una vicenda umana, prima che giuridica, che ne compendia molte altre, che racchiude in sé tutti quelli errori giudiziari di cui nemmeno ci accorgiamo, che descrive chiaramente tutte le distorsioni e i pericoli in cui si incorre quando il pregiudizio prevale sulla regola, quando l’arroganza dell’accusatore prevarica il buon senso, quando si eliminano le barriere poste a tutela dell’individuo e il convincimento di un singolo diviene legge, quando un’opinabile valutazione soggettiva diviene accertamento oggettivo. Si tratta di un caso giudiziario emblema di una Giustizia ingiusta, un monito per tutti gli operatori del diritto, per la collettività, per chiunque intenda comprendere i valori coinvolti nel processo penale. Nell’attuale periodo storico il caso Tortora ci impone di osservare con sguardo critico il sistema penale, di riflettere sulla crisi delle “garanzie”. Gli errori (e gli orrori) del passato sono infatti, o dovrebbero essere, irrinunciabile guida dell’evoluzione e invalicabile argine all’involuzione. Così purtroppo non è. Viviamo un’epoca di amnesie collettive, di proclami parossistici, di propaganda politica fondata su vuoti assiologici, di operazioni elettorali ancorate alla logica del capro espiatorio, della prevaricazione contrabbandata per equilibrio, dell’ignoranza trasfigurata in conoscenza. Senza memoria non vi può essere coscienza critica e questo spiega la scomparsa, per dirla con Prezzolini, degli “apoti”, ossia di coloro a cui non la si dà a bere. È possibile che il sacrificio di un uomo non ci abbia insegnato nulla? La risposta sembra essere, purtroppo, affermativa.
  2. Il caso “Enzo Tortora”.
    L’incipit della tragedia processuale che ha coinvolto Enzo Tortora, famoso conduttore televisivo e radiofonico, oltre che giornalista e politico, è identica a quella del processo Kafkiano: “qualcuno doveva aver calunniato Josef K. perché una mattina, senza che avesse commesso nulla, vennero ad arrestarlo”. Il “caso” Tortora inizia, nell’ambito di un’indagine relativa alla nuova camorra organizzata, dalle accuse senza senso, prive di riscontri, di due ergastolani, camorristi “pentiti”, Pasquale Barra e Giovanni Pandico. È il 17 giugno 1983 quando il presentatore viene accusato di associazione a delinquere di stampo camorristico finalizzata al traffico di droga. L’arresto è un evento mediatico di risonanza nazionale: effettuato a beneficio delle telecamere, si traduce in una gogna diffusa via cavo nelle case di milioni di italiani. Tortora si dichiara subito estraneo ai fatti. Rimane inascoltato. Gli indizi a fondamento del teorema accusatorio non esistono: oltre alle parole dei “pentiti”, soltanto un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista con un nome scritto a penna e un numero telefonico. Nessuno fra gli inquirenti si preoccupa di verificare il recapito telefonico, che dopo molto tempo si si scoprì non essere riconducibile a Enzo Tortora, così come si accertò che il nome sull’agenda non era “Tortora”, ma “Tortosa”. Un’inquisizione “prevenuta e folle, frettolosa, prigioniera della sua tesi, menata per il naso dai camorristi assassini e “pentiti” (ma di che?) e quindi preoccupata solo di salvare la faccia” (Tortora, Lettere a Francesca, Roma, 2016, p. 48). Solo il 17 gennaio 1984 vengono concessi gli arresti domiciliari. Enzo Tortora viene scarcerato dopo un anno e trentatré giorni di carcere preventivo. Il 17 settembre 1985 viene pronunciata nei confronti del presentatore, sulla base delle sole dichiarazioni dei “pentiti”, sentenza di condanna a dieci anni e sei mesi di reclusione. Il 20 maggio 1986 inizia il processo di appello e, durante l’udienza del 26 giugno 1986, il camorrista “pentito” D’Agostino, ritrattando, dichiara che Enzo Tortora con “la camorra non c’entra”, affermando che un giudice istruttore del Tribunale di Napoli lo andò a trovare in carcere proponendogli, in risposta alle doglianze per non aver potuto pregare sulla tomba del padre, di firmare il verbale di accusa contro Enzo Tortora. Il permesso sarebbe stato concesso subito dopo. Tortora viene assolto il 15 settembre 1986, con formula piena, dall’accusa di associazione di stampo camorristico e spaccio di stupefacenti. Nelle motivazioni della sentenza i giudici evidenziano, oltre all’assoluto difetto di elementi dimostrativi di un coinvolgimento nei fatti illeciti contestati, come gli accusatori del presentatore abbiano dichiarato il falso allo scopo di ottenere una riduzione della pena o al fine di trarne pubblicità. Il 20 febbraio 1987 il presentatore torna sugli schermi televisivi. Il 17 marzo 1988, la Cassazione conferma la pronuncia assolutoria. Enzo Tortora muore il 18 maggio 1988. L’infondatezza e la strumentalità delle accuse al conduttore televisivo sono state più di recente confermate, in un’intervista a “L’Espresso” del 25 maggio 2010, da Gianni Melluso, uno dei principali accusatori: “voglio dichiarare una volta per tutte che il presentatore Tortora era innocente. Che non c’entrava con la camorra, la droga o qualsiasi forma di malavita organizzata. Tortora è stato una vittima, e come tale va onorato. Lo ribadisco ora che sono uscito dal carcere e riassaporo la libertà: vorrei fosse vivo, Tortora, per inginocchiarmi davanti a lui. Una persona perbene, finita nel tritacarne delle menzogne”.
  3. Una battaglia per la civiltà del diritto.
    Il presentatore televisivo, come il protagonista del processo di Kafka, è un uomo che viene schiacciato dalla macchina giudiziaria: la procedura penale diviene orpello astratto e metafisico, in cui le peregrinazioni immaginifiche dell’accusa sono caratterizzate dalla perdita del rapporto con il reale. Mistificazioni, operazioni di fantasia che hanno portato alla carcerazione preventiva, alla sottoposizione a processo, all’annichilimento esistenziale. Il protagonismo di qualche magistrato – che nonostante gli errori farà successivamente carriera – ha prevalso sulla libertà, sulla dignità, sulla vita di una persona. Ma Enzo Tortora non fu solo la vittima di una clamorosa e inaccettabile ingiustizia, egli ha cercato di trasformare la propria tragedia personale in un’occasione per una grande battaglia di civiltà del diritto. Non si può dimenticare la lotta politica di Enzo Tortora, a fianco dei radicali, per una Giustizia giusta, per garantire a ogni essere umano un processo equo, di ragionevole durata, incapace di arrecare patimenti superflui, evidenziando la natura oppressiva e disumana della carcerazione preventiva. Nel 1984, in un’intervista a radio radicale, Enzo tortora dichiara: «infamante è la detenzione preventiva, che è l’ammanettamento senza alcuna prova concreta, che è il rito inquisitorio al posto di quello accusatorio, molto più moderno e che sottrae il cittadino all’angoscia di non sapere da chi si è accusati, di che cosa si è accusati, e quanto si rimarrà in galera». Ancor più significative sono le parole pronunciate il 13 maggio 1984, a Piazza Navona, nel corso di un incontro organizzato dai radicali: “l’uomo, il cittadino, oggi non hanno più garanzie, non di difesa, non di tutela del proprio decoro, non di rapidità del giudizio. (…) Quando i tempi della cosiddetta giustizia possono assumere i tempi della tortura, del disprezzo e del supplizio, e voi sapete a quali mostruosità possono arrivare, delle due l’una: o una classe politica è fatta di ciechi, o è fatta di boia. Ed una terza cosa è comunque certa. La libertà, e quindi l’uomo, qui è considerata meno che spazzatura”. Come ricorda Gian Domenico Caiazza, avvocato di Enzo Tortora attualmente candidato alla presidenza dell’Unione delle Camere Penali Italiane, il presentatore era preoccupato che il suo personale “incubo” servisse da esempio, non fosse dimenticato, contribuisse a un miglioramento del sistema Giustizia: “era un uomo di grande comunicazione e ci disse: dobbiamo fare rumore, fare notizia (…) è importante che la gente sappia, che la gente capisca”. Con Enzo, afferma Caiazza, “abbiamo vissuto una vicenda esemplare (…), quelle pagine che solo i grandi uomini possono scrivere. Abbiamo toccato con mano quali conseguenze nefaste si hanno quando un sistema di regole non si rispetta”. Il 19 maggio 1998 Leonardo Sciascia scriveva, sulle pagine del Corriere della Sera, a proposito della battaglia di Tortora: “una battaglia che ha saputo combattere impeccabilmente, con rigore e con dignità. L’ho rivisto dopo molti mesi, sabato scorso. Era irriconoscibile, parlava stentatamente, atrocemente soffriva; ma parlava con precisione e passione nella grande illusione che il suo sacrificio potesse servire a qualcosa. Con questa illusione è dunque morto. Speriamo che non sia davvero un’illusione”. Enzo Tortora non ha potuto vedere l’adozione nel nostro Paese di un codice di rito di ispirazione liberale e democratica e il recepimento, nella Costituzione, dei principi del Giusto processo. Si può tuttavia ritenere che tali importanti passi non abbiano di fatto eliminato una persistente mentalità inquisitoria e autoritaria, come si evince dalle tendenze “demolitive” – nella prassi, nelle iniziative legislative e nelle proposte di riforma – delle garanzie individuali.
  4. Il volto attuale della Giustizia penale: il legislatore mediatico.
    Il pensiero di Enzo Tortora appare purtroppo ancora attuale: “l’Italia vive un periodo terribile (…). Tiene l’uomo in disprezzo assoluto. In Italia abbiamo un Boia quotidiano, in esercizio instancabile che squarta ogni minuto, apre uomini e donne e li espone con le viscere aperte a un tormento che non ha fine. E attende, quest’uomo o questa donna, che finalmente si affacci un giudice, magari a distanza di anni, per vedere se ha qualche cosa di guasto, quando non accade che dopo anni questo uomo-giudice si china, constata che non ha nulla e lo ricuce (…). Mi diceva l’altro giorno Sciascia, che ha avuto la cortesia di venirmi a trovare: «qui siamo arrivati a un punto di degrado in cui il fatto di essere colpevoli o innocenti è del tutto secondario. Prima ti ammanettano e poi cercano le prove” (estratto di una intervista resa, nel 1984, a Radio Radicale). Drammatiche osservazioni che oggi non trovano rassicuranti prospettive nell’attuale quadro politico. L’Italia sembra vivere in uno stato di “ipnosi sociale”, in cui i governati seguono i proclami dei governanti come i topi il pifferaio di Hamelin, facendo sì che la Giustizia penale sia la prima vittima di irrazionali pulsioni alla criminalizzazione e di forze volte alla compressione dei diritti individuali. I segnali di tale tendenza sono evidenti nelle esternazioni mediatiche degli esponenti più rappresentativi della compagine governativa: attacchi alla difesa d’ufficio, “lapsus” sulla necessità di rispettare la “presunzione di colpevolezza”, proclami in materia di “immigrazione” al limite dell’incitamento all’odio raziale. Il “contratto per il governo del cambiamento” getta un’ombra ancora più buia sul futuro del sistema penale: riforma della legittima difesa attraverso modifiche all’art. 52 c.p. distoniche, per non dire maldestre, rispetto agli obiettivi – senza dubbio discutibili – proclamati dalle forze politiche proponenti; introduzione di preclusioni all’accesso al giudizio abbreviato, senza alcuna valutazione di coerenza sistematica; inasprimento delle pene per la violenza sessuale, senza chiarire quali siano i principi, ammesso che ve ne siano, di politica criminale sottesi a tale scelta e in contrapposizione con i risultati scientifici in materia, i quali evidenziano come all’incremento sanzionatorio non si accompagni una maggiore efficacia deterrente; revisione in senso restrittivo delle norme sull’imputabilità; riforma della prescrizione, senza percepirne il significato in termini di garanzia, per “evitare che l’allungamento del processo possa rappresentare il presupposto di una denegata giustizia”, con buona pace di chi potrebbe essere sottoposto a procedimento penale per una vita intera; garantire la “certezza della pena” attraverso un incremento punitivo e l’eliminazione di tutte quelle riforme che, almeno in parte, hanno prodotto effetti positivi; annullamento sostanziale della riforma sull’ordinamento penitenziario e risoluzione del problema “carcere” con semplici – si fa per dire – interventi architettonici. Il fenomeno è noto come “populismo penale” e si traduce in una “strumentalizzazione politica del diritto penale, e delle sue valenze simboliche, in chiave di rassicurazione collettiva rispetto a paure e allarmi a loro volta indotti, o comunque enfatizzati da campagne politico-mediatiche propense a drammatizzare il rischio criminalità; in particolare, il presunto rischio proveniente dal diverso”, dipinto come nuovo nemico della società (Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, p. 97) . Una distorsione del significato stesso del diritto, affidato alla ricerca del compiacimento della società, figlio del sensazionalismo mediatico e privo di alcuna scientificità. Il legislatore penale in tal modo diviene, per ragioni di alleanza e/o sopravvivenza politica, un legislatore mediatico, determinando una conseguente espansione autoritaria nel sistema del diritto penale (Paliero, L’agorà e il palazzo. Quale legittimazione per il diritto penale?, in Criminalia, 2012, p. 197). Una regressione palese rispetto a principi fondamentali che dovrebbero costituire i pilastri, in uno Stato di Diritto, dell’azione legislativa: ancora attuali, a questo proposito, si rivelano le riflessioni di Francesco Carrara, il quale, nel 1897, osservava che compito della scienza criminale è quello di “frenare le aberrazioni dell’autorità sociale nel divieto, nella repressione e nel giudizio, onde questa si mantenga nelle vie di giustizia e non degeneri in tirannia (…). Il diritto è la libertà. La scienza criminale bene intesa è dunque il supremo codice della libertà” (Carrara, Programma del corso di diritto criminale, Pisa, 1897, p. 8 ss.).
  5. Il processo involutivo.
    Sul fronte processuale, gli indirizzi politici descritti si sposano con una sempre più diffusa percezione delle garanzie come orpello o intralcio al cammino verso la pretesa punitiva. Alcune esemplificazioni paradigmatiche: l’iperattivismo, vietato dalle norme, del Presidente del Collegio che censura le domande del difensore fuori dai casi consentiti, “rettifica le risposte dei testi, si autorizza a porre ogni genere di quesiti anche in forma decisamente suggestiva, quasi fosse alla ricerca della conferma, come un vero accusatore, di fatti già ben sedimentati nella sua mente” (Amodio, Verso una storia della giustizia penale in età moderna e contemporanea, in Criminalia, 2011, è. 14); persistente utilizzo di misure cautelari coercitive al fine di ottenere dall’indagato dichiarazioni ammissive o autoincriminanti; vicinanza osmotica fra Autorità giudicante e requirente; incapacità di cogliere le implicazioni del modello processuale definito dal codice di rito. Nelle aule giudiziarie, inoltre, si assiste a sempre meno velate estorsioni, da parte del giudicante, per ottenere il consenso all’acquisizione degli atti di indagine, in spregio al principio costituzionale secondo cui il dibattimento è il luogo in cui si forma la prova. In questo contesto vi sono poi autorevoli rappresentanti della magistratura (rectius: di parte di essa) che proclamano l’assoluta affidabilità, invocando opinabili atti di fede del giudicante, di quanto raccolto unilateralmente dalla parte pubblica in sede di indagine, affermando la sostanziale inutilità del contraddittorio. Il processo penale viene letto non come verifica circa la fondatezza dell’accusa, ma come lotta contro l’imputato. Complica ancora di più il quadro descritto la dilagante ossessione per i numeri, quelli circa la capacità di definire i procedimenti penali: un efficientismo cieco, capace di minare i pilastri su cui si fonda il processo penale. La ricerca dell’efficienza è infatti un obiettivo che, se non posto in relazione ai diritti individuali e a inviolabili garanzie, finisce per svilire il senso stesso dell’accertamento giudiziario. D’altronde, il processo più efficiente è quello che non esiste, in cui l’indagato è già condannato, quello in cui un giudice, senza inutili perdite di tempo, condanna in base alla propria percezione soggettiva. Può essere ritenuto il processo più giusto? In contrapposizione con la ricerca spasmodica e irrazionale di meccanismi per velocizzare lo smaltimento del carico giudiziario, si propongono interventi normativi volti ad attribuire alla pubblica accusa la discrezionalità assoluta in merito alla durata del procedimento (l’allargamento delle maglie della prescrizione non fa altro che permettere la sottoposizione a indagine, con quanto nel consegue in termini umani, senza fine), o a ridurre la possibilità di accesso a riti alternativi (v. modifiche al giudizio abbreviato), dimentichi della loro fondamentale funzione deflativa.
  6. La Giustizia che muore.
    Enzo Tortora ci ha insegnato che il processo penale non può ignorare l’uomo che vi è sottoposto, che un accertamento giudiziario giusto non può che essere antropocentrico, che anche i magistrati possono sbagliare e che a quell’errore non vi è rimedio, che la sottoposizione a procedimento penale è di per sé una pena, che il processo può annientare intere esistenze, che se il rispetto delle regole è rimesso all’arbitrio del giudicante – che oggi chiamiamo interpretazione creativa – l’effetto non può che essere l’errore, il cui rischio aumenta con l’arroganza di sapere oltre le prove. La Giustizia, evidentemente, può morire, quando: i giudici diventano semplici burocrati e l’imputato non è più un uomo, ma un numero su una pratica; un presunto innocente diviene un presunto colpevole; chi accusa e chi giudica appartengono alla stessa squadra; si creano incriminazioni per compiacere la pubblica opinione; a creare le fattispecie e le regole procedurali è l’interpretazione creativa della giurisprudenza; il legislatore rinuncia a legiferare, limitandosi a recepire gli orientamenti della giurisprudenza, a codificare le circolari delle diverse Procure della Repubblica o i suggerimenti di frange “estreme” della magistratura che mai hanno compreso il significato del processo accusatorio; un’aula di Giustizia non è più un’aula di Giustizia, ma un’aula vuota e l’imputato è tenuto a distanza dal suo dibattimento; le impugnazioni sono considerate un ostacolo e vengono sfoltite con il ricorso all’inammissibilità; un processo, senza prescrizione, può durare una vita. Enzo Tortora è un simbolo. Un simbolo di cui abbiamo un disperato bisogno per aggiustare questa bilancia che ha perso l’equilibrio.

Concetto Daniele Galati

Dottore di ricerca in Giustizia penale e internazionale, Università degli Studi di Pavia

Avvocato e Responsabile della Scuola Territoriale, Camera penale di Busto Arsizio

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