Articolo pubblicato su La Prealpina, 20 febbraio 2022

Da settimane, ormai, viene dato peculiare rilievo mediatico a una sentenza del Tribunale di Busto Arsizio, definita in molti casi “vergognosa”, basata “su pregiudizi e stereotipi”, “inaccettabile”. Un clamore che nasce da un’unica circostanza: si tratta di una pronuncia assolutoria relativa ad un abuso sessuale (presunto) nei confronti di una donna. 

Una conclusione che legittimerebbe lo stigma abbattutosi sui componenti del Collegio, esposti senza remora alcuna alla berlina della communis opinio e additati come portatori di una cultura retrograda e codina. Tali valutazioni prescindono, chiaramente, da una attenta analisi della motivazione del provvedimento, dal procedimento logico seguito nel giudicare, dall’esame del complessivo compendio probatorio, dall’esperienza e competenza dei Giudici coinvolti.

Un processo ai giudicanti, svolto al di fuori delle aule di Giustizia e in assenza di contraddittorio, da cui traspare chiaramente una percezione distorta del giudizio penale: i concetti di imputato e colpevole si sovrappongono; la pronuncia assolutoria, per il solo fatto di escludere la penale responsabilità, non può che essere erronea; l’innocenza è un’eventualità estranea al giudizio, orientato unicamente alla condanna di chi, all’evidenza, è aprioristicamente colpevole.

Una percezione del processo unidirezionale, dall’esito predeterminato, in cui il Giudice che assolve erra in ragione del mancato rispetto di una funzione, percepita come meramente notarile, volta a certificare una colpevolezza in re ipsa.

L’imputato diviene, in questa prospettiva, il personaggio centrale di un’opera dal finale scontato, l’involontario interprete di dinamiche rituali solo formali.

Singolare è poi la chiave di lettura della funzione giurisdizionale: il Giudice non dovrebbe accertare la sussistenza di un fatto, la commissione dello stesso ad opera di un individuo, la riconducibilità della condotta a una fattispecie penalmente rilevante, ma semplicemente dare applicazione al principio (fondato non si comprende bene su quali basi) secondo cui l’accusato di violenza sessuale è certamente colpevole.

Il Giudice, in sostanza, non dovrebbe giudicare. Se lo fa, per converso, dovrebbe quantomeno premurarsi di sondare l’animo della pubblica opinione che, pur nulla sapendo della vicenda, è senz’altro il naturale detentore della verità. Se, poi, anche tale criterio non dovesse bastare, si può sempre ricorrere all’agevole constatazione per cui non possono esistere presunte vittime di un reato, ma solo vittime. 

Il fatto che la storia del processo penale vanti un numero indefinito di sicofanti più o meno retribuiti, mossi dalle più svariate logiche accusatorie, è un fatto privo di rilievo.

Culturalmente lontani sono i tempi in cui i grandi Maestri del diritto penale, come Gian Domenico Romagnosi o Francesco Carrara, sottolineavano come il presupposto degli strumenti processuali dovesse essere la loro incombenza su un possibile innocente e che, se “in natura” si fosse certi della reità dell’accusato, ogni “uomo onesto” dovrebbe tremare. 

Se, nelle riflessioni di Carnelutti, la sentenza di assoluzione rappresenta il riconoscimento di un errore giudiziario, nell’odierna narrazione mediatica un tale esito è ontologicamente erroneo ed espressione dell’inadeguatezza dell’organo giudicante.

È una visione del processo penale agevole quella secondo cui ogni accusato è colpevole, solo fino a quando, però, il sistema penale non raggiunge fisicamente anche i sostenitori di tali teorie, i quali repentinamente ripiegano su logiche più garantiste.

Questa vicenda offre, dunque, la paradigmatica esemplificazione di un’idea del processo come strumento volto a soddisfare il desiderio di condanna della collettività, dove non opera la presunzione di innocenza, in cui il Giudice che proscioglie merita una censura a reti unificate, dove le sentenze si criticano non con le impugnazioni, ma con i media, nel tentativo di condizionare il prosieguo del giudizio dall’esterno. Una giustizia privata parallela a quella in toga, che ambisce evidentemente a sostituire quest’ultima, dove nessun rilievo ha l’imparzialità del Giudice o l’equilibrio del contraddittorio. Questo pare sì, in un Paese democratico, una “vergogna”.

Concetto Daniele Galati

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